le tradizioni del gusto

le tradizioni del gusto

LE TRADIZIONI DEL GUSTO TRA VERSILIA, LUCCHESIA, SVIZZERA PESCIATINA E PISTOIESE

Uno degli aspetti che più colpiscono il viaggiatore a piedi è il costante evolvere delle caratteristiche dei territori che si attraversano. La lingua, nei suoi accenti e cadenze sia nell’italiano che negli idiomi dialettali, ne è il principale segnale, spesso seguita dalla cucina, diversa espressione di uno stesso filone antropologico. Capita così di osservare, anche nell’ambito di brevi distanze, il mutare dei termini utilizzati per indicare il medesimo oggetto, o stato d’animo: nel breve tratto di sentiero che divide un borgo dall’altro il nome attribuito ad una pianta, un fiore, un uccello può variare anche in modo sensibile.
Il fenomeno è particolarmente percepibile nelle regioni di confine, per vicende storiche o culturali, ed in quelle che, dallo stare prospicienti al mare, si insinuano nella campagna e poi sui monti.  E’ il caso del percorso che congiunge l’area di Pietrasanta, in piena Versilia, confinante con la Garfagnana e che ancora risente delle influenze liguri, al territorio della Lucchesia, transitando per Camaiore, poi Massarosa, la Val Freddana  ed attraversando la regione delle Sei Miglia sino a Lucca.   Da qui iniziano altre mutazioni,  che interessano la Svizzera Pesciatina, Collodi, la regione delle terme – Montecatini e Monsummano – per concludersi a Pistoia.
Uno dei protagonisti emblematici di questa mutazione è ad esempio un insaccato tipico toscano che assume denominazioni e contenuti leggermente diversi a seconda della zona. Si tratta di un prodotto “povero” di assai antica tradizione: si fa con quel che si trova, tutti ingredienti poco pregiati, ma il risultato è notevole. In Garfagnana è chiamato biroldo e viene realizzato con le parti meno nobili del maiale come testa, polmoni, cuore, lingua e talvolta altre frattaglie, viene mangiato tagliato a fette e fritto. Nella zona di Pescia, Uzzano e limitrofi è chiamato buristo, così come a Siena mentre nelle zone di Pistoia e di Pisa è chiamato mallegato. Qui alle cotenne e parti della testa del suino, cotte e macinate, si aggiungono lardelli soffritti e sangue filtrato. L’impasto è insaporito con aromi, a volte uvetta, e insaccato nello stomaco del suino. Come mi spiegò un giorno una fiera contadina della lucchesia, è un prodotto domestico, curato per tradizione dalle donne di casa, ognuna con la sua particolare ricetta.  La Regione Toscana ha ottenuto l’inclusione del biroldo tra i Prodotti agroalimentari tradizionali italiani per le seguenti tipologie: biroldo della Garfagnana, biroldo delle Apuane, biroldo di Lucca.

La Versilia

Torta di pepe di Camaiore

I giorni lungo questi bei sentieri sono stati ravvivati dall’incontro con la tradizione cuciniera, presentatasi di volta in volta in piccole sorprese o in grandi e celebrate pietanze.
Nei panifici di Pietrasanta si trova la panzanella fritta, simile allo sgabeo della lunigiana: pezzetti di pasta fritta . Tipici di questa città e della Versilia in generale sono i piatti a base di farro e pescato del giorno. Si trovano facilmente gli sparnocchi (cicale di mare) con i fagioli e un tipico antipasto versiliese di stagione: i fiori di acacia fritti.
Nel territorio di Camaiore la merenda invita alla degustazione delle tipiche torte salate: la scarpaccia camaiorese tipica della Versilia, così chiamata perché una volta cotta ha lo spessore della suola di una vecchia scarpa. Contiene zucchine, fiori di zucca, cipolla, farina, acqua sale, pepe e olio. Diversamente, la torta di pepe camaiorese si fa con una sfoglia di farina con olio, acqua, uova, un pizzico di sale, che va a contenere riso lessato mescolato ad un battuto di bieta lessata, poco prezzemolo, formaggio pecorino, pepe, sale, uova sbattute.

Le sei miglia camaioresi

I tordelli ci ricordano qualcosa, declinazione versiliese di un orgoglio nazionale. Quelli di Camaiore hanno origine antica e celebrano le grandi occasioni. Si preparano con un ripieno di manzo e maiale, pane ammorbidito nel brodo, due cucchiai di parmigiano ed uno di pecorino, due uova, il mazzetto di foglie di timo, il ciuffo di prezzemolo, una bella grattata di noce moscata, sale, pepe. La sfoglia è a base di uova e poco sale. Si condiscono con un ragù di carne e buon formaggio.   Saliti a Montemagno e nella regione tra Valpromaro e Lucca del tordello incontriamo la versione Lucchese. La forma dentellata a mezzaluna o circolare è molto invitante ma ciò che lo contraddistingue è il numero e l’associazione degli ingredienti del ripieno: carne di manzo e maiale, mortadella, bietola, pecorino, parmigiano, sedano, aglio, mollica, noce moscata, pepe, basilico. Si servono con ragù di carne, ma anche un sugo al pomodoro o semplice burro, non si può passare di qui senza farne la conoscenza.

I tordelli

Il farro è un classico prodotto della Garfagnana ed è il protagonista della minestra di farro alla lucchese. Ha la sua forza nella semplicità degli ingredienti: farro, legumi, verdure. La versione classica è con i fagioli scritti (borlotti) ma si cucina pure con altri legumi, quali i ceci e le lenticchie.
Il pane di patate è morbido e naturalmente dolce, con una sua peculiare consistenza. E’ così buono che lo si può mangiare anche da solo, soffice e fragrante: si trova a Lucca ed in Garfagnana, dove origina e grazie all’umidità della patata si conserva per molti giorni.

Lucca

Ed ecco che si incontra la versione lucchese (e dolce) delle torte già incontrate a Camaiore: la torta co’ becchi, chiamata così per la decorazione dei bordi a forma di becchi. Si può trovare con cioccolata, pere o more, ma quella più autentica e originale è quella “cogli erbi” ovvero le bietole o addirittura con le erbe selvatiche, un uso non convenzionale delle verdure che l’aggiunta di pinoli e buccia d’arancia rende sorprendente.
C’è un motivo per cui in qualche forno lo produce nella tradizionale forma di ciambella: in tempi passati era usanza portarlo a casa appeso al polso. Il buccellato, che appare come un semplice pane dolce “povero” è dolce antico sempre presente nelle case lucchesi. Si tratta di un pane dolce arricchito con uova, semi di anice e uvetta: ogni fornaio o pasticcere della lucchesia ha la sua ricetta.

Il biroldo

Fatti di semplice farina di castagne e cotti fra i “testi”, due dischi di ferro con un manico che vengono posti su una fiamma, i necci appaiono come dischi piatti, simili alle crepes e vanno tradizionalmente serviti arrotolati con una farcitura che può essere semplice ricotta oppure una fetta di biroldo, o ancora, come si usa in alcuni borghi della Valle del Serchio, “incicciati” ovvero con un poco di salsiccia che viene incorporata prima della cottura.  I necci rimandano ad un altro piatto molto simile, i testaroli, tipici del pontremolese e delle adiacenze liguri sino a Sarzana la rossa, antichissimo tipo di pasta, prodotto pure in dischi di ferro ma di maggiori dimensioni e con farina di grano.
Un incontro piacevole, a dimostrazione che esiste una cucina trasversale che accomuna le aree agricole dove il cibo è sempre stato poco e a buon mercato è quello con il baccalà. In Lucchesia esiste una lunga tradizione di cucina del baccalà: fritto, in umido con i ceci o con la bietola. Durante la bella stagione viene celebrato nel corso di sagre e feste che ne testimoniano l’antica tradizione.
Usciti dalle belle mura della città di Lucca, attraverso la piacevole pianura ci si dirige a Lammari, un piccolo borgo dove capita di poter fare uno spuntino con il tipico pane sciocco toscano, fatto in casa e le rovelline, fettine di carne impanate e fritte e ricotte nel sugo di pomodoro, capperi ed odori, un piatto “di recupero”: quando avanzavano le fettine fritte si usava “rifarle” con quel che c’era in casa.

Collodi

Pinocchio, il Gatto e la Volpe

Collodi obbliga a celebrare due personaggi ed un piatto. I personaggi sono Carlo Lorenzini, autore della storia di Pinocchio e Pellegrino Artusi, ricercatore e pietra angolare della cucina italiana; il piatto, il cibreo, così antico che pare fosse stata Caterina de’ Medici, trasferitasi in Francia e divenuta regina, a esportarlo in quanto ne era incredibilmente ghiotta.  Si legge, nelle Avventure di Pinocchio, nel capitolo XIII, presso l’osteria del “Gambero Rosso” la cena del burattino accompagnato dal Gatto e dalla Volpe:
“Dopo la lepre si fece portare per tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d’uva paradisa; e poi non volle altro […] Quello che mangiò meno di tutti fu Pinocchio”
Carlo Collodi cita un piatto della cucina toscana i cui effettivi ingredienti sono i fegatini e i “fagioli” di pollo (sono così detti gli attributi che fanno del gallo un gallo!) e le creste, il tutto in salsa d’uovo, ma aggiungendone per gioco alcuni stravaganti come le lucertole e chiamandolo cibreino con un diminutivo ironico rispetto all’abbondanza del piatto richiesto dalla Volpe.  Sembra latina l’origine del nome, da cirbus la rete che riveste l’intestino o, sempre latino, da gigeria interiora di volatili, mentre alcuni libri di cucina riportano il termine zingibereus di origine araba. Treccani lo attribuisce, con aggiunta di “probabile”, al francese antico civé, da cipolla. Si tratta di un antico piatto toscano di riutilizzo delle parti meno nobili del pollame. Oggi ridotto a reperto storico era molto apprezzato da Pellegrino Artusi che così ne descriveva la preparazione e le caratteristiche:
“Il cibreo è un intingolo semplice, ma delicato e gentile, opportuno alle signore di stomaco svogliato e ai convalescenti. Prendete fegatini (levando la vescichetta del fiele) creste e fagiuoli di pollo; le creste spellatele con acqua bollente, tagliatele in due o tre pezzi e i fegatini in due. Mettete al fuoco in proporzione, prima le creste, poi i fegatini e per ultimo i fagiuoli e condite con sale e pepe, poi brodo se occorre per tirare queste cose a cottura.  A tenore della quantità, ponete in un pentolino un rosso o due d’uova, con un cucchiaino, o mezzo soltanto, di farina, agro di limone e brodo bollente frullando onde l’uovo non impazzisca. Versate questa salsa nulle rigaglie quando saranno cotte, fate bollire alquanto ed aggiungete altro brodo, se fa d’uopo, per renderla più sciolta, e servitelo. Per tre o quattro creste, altrettanti fegatini e sei o sette fagiuoli, porzione sufficiente a una sola persona, bastano un rosso d’uovo, mezzo cucchiaino di farina e mezzo limone”.
A Collodi, in occasione della festa di San Bartolomeo, patrono del paese, è usuale servire e scambiarsi le torte coi becchi, non solo agli “erbi” ma anche di riso e con cioccolato.

Pescia e dintorni

Gli gnudi

Un breve percorso ci separa da Pescia, dove la tradizione in cucina aggiunge e toglie, ai cibi di ogni giorno, per dare la sua impronta. La cioncia è il più importante piatto tipico, “piatto povero” è uno stufato delle parti callose del muso di vitello, naso, guancia oltre alla coda, che vengono preparate con le verdure e il pomodoro, con aggiunte di peperoncino e basilico. Deve il suo nome alle concerie che anticamente formavano il tessuto economico della città. Le parti di scarto dei vitelli, non utili alla produzione di pelli, venivano sgrassate e utilizzate grazie alla fantasia suscitata dal bisogno e dalla fame, tipicamente popolare. Oggi è diventato un classico piatto rappresentativo del territorio e viene anche detto trippa alla pesciatina.
Un primo  piatto che ricorda il passato contadino, molto diffuso a Pescia e nella Valdinievole, sono gli gnudi (palline di ricotta e bietola) che si servono con besciamella, parmigiano o pecorino e burro.
Utilizzati in molti piatti, i fagioli che prendono il nome dal paese di Sorana, una delle dieci castella della Svizzera Pesciatina, la montagna a nord di Pescia. Fiore all’occhiello del territorio pesciatino viene definito  “prodotto della salute” e si trova in due tipi: bianco e rosso. Sono Presidio Slow Food e vengono  cucinati con aglio, salvia, pepe ed olio, si accompagnano alla carne, l’arista al forno o ad una bistecca alla griglia e ai fegatelli. Preparazione tipica e originale sono i fagioli al fiasco.
Grazie ai boschi di castagni di cui è ricca la montagna Pesciatina, vi è una grande produzione di un ottimo frutto autunnale. Qui dette anche “il pane dei poveri” le castagne da sempre sono un importante e vario nutrimento. I necci nascono dalla farina di castagne e si preparano con farina, acqua, sale e… i ferri di cui si è già raccontato. Una volta cotti i necci vengono riempiti di ricotta e arrotolati come cannoli.
Ci accorgiamo di esserci avvicinati, passo a passo, alla zona di influenza fiorentina; incontriamo il panino con il lampredotto, una squisitezza sempre presente nei mercatini e per le vie di Firenze. Questa popolare eccellenza toscana, è semplicemente uno degli stomaci dei bovini, e fa parte di quello che in Toscana viene chiamato quinto quarto, cioè le interiora. Piatti poveri di origine popolana che oggi vengono giustamente apprezzati. Il lampredotto si fa bollire con sedano, carota, cipolla, pomodoro e si consuma prevalentemente nel panino, inzuppato nel brodo di cottura e condito con sale e pepe o con salsa verde. Trova buon impiego pure in cucina, in zimino con le bietole, o anche come base per un sugo.
Ancora a Pescia ritroviamo la declinazione locale di un vecchio amico, il mallegato. L’impasto caldo si insacca nello stomaco del suino e viene successivamente cucito. L’insaccato assumerà col tempo un sapore delicato e dolciastro, di gusto molto particolare.
Anche la zona di Prato si avvicina ed iniziamo a poter concludere la nostra cena con dei buoni cantucci, biscotti secchi con all’interno mandorle, ottimi gustati intinti, tuffandoci pure il dito, nel Vin Santo.

Montecatini e Monsummano

Da Pescia a Montecatini e Monsummano il percorso è breve: siamo in zona di terme e chi sta “passando le acque” gode di molto tempo libero. Sembra che qui ci si sia dati da fare per intrattenere dolcemente i tanti ospiti. La cialda di Montecatini è un prodotto singolare, non biscotto e neppure wafer; difficilmente può essere paragonata ad altro dolce. Priva di burro e di altri grassi e farcita solo con mandorla pugliese, è il risultato di una complessa lavorazione, che prevede ben due cotture. Allo stesso tempo compatta e friabile e con il tipico retrogusto amarognolo della mandorla, si abbina al gelato, al the e anche ad un calice di passito.

Pistoia

Pistoia propone due prodotti d’eccellenza che sono l’olio e il vino, e un piatto per stomaci forti che porta il nome di Zuppa del carcerato, una zuppa a base di pane raffermo, interiora di vitello e una spolverata di formaggio. Il nome deriva dal fatto che era un piatto cucinato per i prigionieri del carcere di Pistoia, in passato come oggi vicino ai macelli della città.

La pistoiese farinata con le leghe è una prelibatezza della cucina povera. Le leghe non sono altro che striscioline di cavolo nero, mentre la farinata è a base di mais. Si tratta dell’interpretazione locale della infarinata garfagnina, una deliziosa via di mezzo tra una polenta e una zuppa che cambia nome e qualche caratteristica a seconda del luogo: a Pietrasanta viene chiamata intruglia, mentre in Garfagnana diventa incavolata.
Pellegrino Artusi li avrebbe definiti: “un trastullino”, sono i brigidini di Lamporecchio, biscotti sottilissimi e croccante, dal sapore intenso di anice, perfetti da mangiare mentre si cammina tra bancarelle e giostre nelle sagre di paese.